L’Ape

Si fermò, esausto, dopo aver messo piede sul pianerottolo. Si tolse la giacca, ansimando un po’. Prese il fazzoletto dalla tasca per asciugarsi il sudore sulla fronte, poi guardò il suo amico e collega, ancora molti gradini in basso, una rampa intera.
“Dimmi, mio caro amico” gridò dall’alto l’ispettore di polizia ” Chi farebbe tutte queste scale per venire a trovare il proprio carnefice?”
Il poliziotto sostò a metà scalinata, guardò il suo superiore con aria stupita, non riusciva mai a capire se le sue domande fossero serie oppure solo facezie che rallegrassero il loro tristo mestiere.
“Forse” rispose alla fine della sua breve pausa interrogativa “qualcuno a cui la lotta con il proprio destino non ha mai messo paura!”
L’ispettore, frattanto, ripose il fazzoletto nella tasca della giacca e mise la stessa sulle bretelle azzurre e la camicia bianca. Si strinse, infine, nelle spalle e sorrise.
“Elementare Watson! Elementare!”
Quando il suo Watson lo raggiunse sul pianerottolo, davanti alla porta in noce massello, l’ispettore, prendendo il suo taccuino in fodera di pelle, bussò una e due volte.
“Ah, finalmente! Siete arrivati, non sapevo più cosa fare!”
Ad accoglierli c’era un appena giovane uomo: magro, in giacca e cravatta, dai tratti caucasici, due occhi determinati in un corpo esile, si direbbe addirittura flebile.
“Perché, cosa ha fatto? O cos’altro voleva fare prima del nostro arrivo?”
“Nulla…Io… Ecco…”
“Non se ne curi, signore. Il mio collega è sempre diffidente. Si sieda, e si calmi. Ci lasci lavorare, adesso, ritorneremo da lei al più presto.”
Il proprietario dell’appartamento si fece appena da parte e, cadendo mollemente su una sedia, apparsa quasi per magia, indicò la direzione ai due agenti.
La luce del sole mattutino, in soggiorno, si infrangeva contro le vetrate di una oblunga ed ampia finestra, allungando le ombre sul tavolo al centro. A prima vista la bellezza delle figure sulla scacchiera, che rifletteva la luce, distoglieva lo sguardo da altro. L’altro erano due braccia conserte sul tavolo, un capo reclinato ed appoggiato su di esse, un corpo immoto seduto. Se non ci fossero stati quei due estranei a fissare la scena, sarebbe stato soltanto il pisolino di un uomo stanco o insonne.
L’uomo era morto, invece, come aveva segnalato al telefono colui che prima li aveva accolti. All’improvviso, si era accasciato in quella posa, senza alcun motivo apparente. I due uomini si avvicinarono, osservando minuziosamente i dettagli della scena. Cercavano, presumibilmente, indizi di quel che fosse realmente accaduto in quella stanza, sebbene sospettare di quel volto emaciato nel corridoio era alquanto improbabile.
“Guardi, ispettore! Si avvicini, la riconosce?”
“Sembra una Ben-Oni! Partita difficile e bella a quanto pare. Ma non gode di molta popolarità.”
“Ispettore!”
“Che c’è! Non parlavi della posizione?”
“Certo, come no! Non credo questo sia il momento. Piuttosto, guardi, credo di avere trovato il motivo del sonno del nostro amico”
“Cos’è?”
“Un’ape, ispettore, proprio vicino all’orecchio. Doveva essere allergico e al sua partita è finita prima del previsto”
Dopo poche altre ed esaustive domande, che sembravano confermare del tutto i sospetti dei due agenti, il proprietario di casa fu lasciato solo. Data l’assenza di qualunque indizio di omicidio, si sarebbe occupato lui del corpo e della sepoltura.
“Mi dispiace, James!” disse l’uomo entrando in soggiorno e avvicinandosi alla finestra ” Non era mia intenzione, sai. Ogni maledetta sera mi vieni a trovare con quella tua insaziabile voglia di giocare una partita. Ogni maledetta sera è una nuova occasione per me di batterti sulla scacchiera, di potermi sentire il Campione vero, colui che ha riportato il Titolo a Casa. Ci sei tu, però! Ci sei sempre stato tu, James, tra me e quel Titolo!
Stanotte, finalmente, eri in difficoltà, ti avevo schiacciato ed avevo la partita in pugno. Avrei sicuramente vinto, James! Avrei vinto, se quella maledetta ape non si fosse posata sul tuo Alfiere in fianchetto. Maledetta! ha persino passeggiato sulla scacchiera suggerendoti la mossa vincente!
Mi dispiace, James! Questa volta dovevo assolutamente vincere io!”
Alla luce della finestra, mentre i due agenti attraversavano la strada, l’uomo posò uno stiletto sul mobile accanto. Compose un numero telefonico. Attese qualche minuto.
“Sì, sono io: Anatolij. Venitelo a prendere. Ora, sono soltanto io il Campione!”

Una nuova Partita

Fuori, i rumori dei fuochi festeggiavano l’inizio di un altro giorno. Solo, come fosse l’annuncio di un nuovo corso.
Sullo schermo scorrevano le immagini di un vecchio film, la cui bellezza il tempo non aveva sbiadito.
Le mani sulle mani ad intrecciare le dita, nella ricerca del sentirsi più vicini, ancora più intimi, parlavano di promesse e nuovi giorni nei quali viverle, nel silenzio delle loro labbra che non si saziavano dei pensieri riverberati negli occhi.
La scacchiera era ancora sul tavolino. Il Re sotto scacco sembrava tremasse ancora di paura di fronte alla Regina bianca, altera e bella nella sua eleganza, aggraziata dalla sua forza. I pezzi, spettatori ignari, immobili, allungavano la loro ombra sulla scacchiera dai bordi dove erano relegati.
La partita era iniziata tanto tempo prima, quasi non se ne erano accorti, gli avversari, di giocare una mossa dietro l’altra unite dal filo invisibile di una logica passione, guidata dalle loro fantasie.
Gli amanti non imparano mai i loro desideri e questi hanno sempre bisogno di esperienze nuove, come mosse mai giocate o partite mai scritte nella memoria, per scrivere nei loro occhi infedeli l’arte del loro infinito amore.
“Adesso, cosa faremo noi due?” chiese il Re alla Regina, avvinghiata nei suoi occhi.
“Scuoti il mio sonno! Non essere mai docile e arrendimi a te!” rispose lei “Ma ti prego, non cercare altre domande da farmi” e rimase immobile abbracciata al Re, senza lasciargli modo di liberarsi.
Era stata una partita profonda le cui mosse, non sempre comprensibili, li avevano impegnati nel profondo, imparando a leggere tutto nei loro occhi. Uno spettatore, inconsapevole, non avrebbe capito il senso di quelle che sembravano mosse illogiche. Di certo, non avrebbe immaginato la fine tumultuosa ed improvvisa dell’attacco finale. Come un colpo di vento poi, senza neanche un sacrificio, quello Scaccomatto finale sembrava essere arrivato dal nulla a scuotere la scacchiera con un risultato da lasciare senza fiato.
La vera bellezza, in fondo, non si osserva, si avverte ed irrompe come qualcosa che non poteva essere altro.
Era finita, tuttavia. La memoria non basta a vivere, se non sei disposto a superare i ricordi e riversarli in mille altre nuove partite, che non siano, però, la copia di nessun’altra. Perché schiavitù e tradimenti sono le redini con cui la vita vi guida.
“Adesso, cosa faremo? Noi due, ora, cosa faremo domani?” riecheggiò ancora questa domanda, come il vento o la coda del diavolo, sulla scacchiera.
Qualcuno sull’uscio di una porta, proiettato sullo schermo a colori, cercò di essere franco con il suo cuore ben custodito dalla sua avvenente bellezza. Domani saranno altri giorni e forse nessuno avrà la conoscenza di nessun’altro, e la distanza tra due anime è impercorribile.
“E’ tardi” disse lei.
“Sì, è ora che io ritorni a casa” rispose lui, prendendo le sue cose.
“Domani cosa farai?”
“Ti penserò e aspetterò di rivederti”
Si avvicinò alla scacchiera e rimise a posto i pezzi. Stava per riporli via nella scatola, ma lei lo fermò.
“Non rivivrò più tutto questo. Lo sai, che quando finirà, mi farà male?”
Le parole che si sono dette e quelle che si è creduto di dire possono anche perdersi. Ci sono segreti i cui custodi sono le azioni di domani. Ci sono segreti che si chiamano promesse, confessarli è tradirle. Dopo aver fissato a lungo la scacchiera con un sorriso, sollevò gli occhi e si mise in cerca di qualcosa che non trovava. Alla fine, dal cassetto di uno scrittoio, estrasse una penna e un foglio bianco. Si sedette divise a metà il foglio e cominciò a tratteggiare delle linee. Lei lo attese senza proferir parola, come attendesse un ardente sogno e sfuggisse all’animo di un santo o di uno sposo incoronato.
L’ultimo bacio e poi lui uscì nel freddo e buio del mattino.
Prima di andare a dormire, lei prese i due nuovi formulari e li ripose ognuno accanto alla scacchiera. Erano vuoti e nessuna mossa, nessun gesto, nessun abbraccio o bacio o parola vi erano scritte ancora.

La Promozione

Lei smise di muoversi, gli baciò la guancia e lo guardò dall’alto. Lui, tenendo le mani sui fianchi, smise di stringerla e con un dito le sfiorò le labbra umide, scrivendole nella sua memoria.
“Avvicinati” le sussurrò. Fronte contro fronte, sfiorandosi e riprendendo a muoversi, lentamente, dolcemente, i loro occhi si persero e i loro pensieri si confusero.
“Basta” sussurrò lei, e si lasciò scivolare di fianco, chiudendo al maglione la lampo, incrociando le braccia intorno al petto, fissandolo ancora negli occhi, chiamandolo ancora a sé.
“Cosa c’é?” lui gli chiese, restando, smarrito, seduto sul divano. Reclinò appena il viso, e le sue mani le disegnarono i lineamenti del volto, e ancora le labbra, sottili, rosa, calde.
“Non lo so” rispose lei, con un nodo in gola.
Il silenzio entrò per un attimo nel cuore di entrambi, percorse tutta la distanza interminabile tra di loro e un altro bacio.
“Ti prego, vai ora”.
Quando furono in piedi, lui si innamorò ancora di lei, dei suoi capelli, del suo sorriso sul volto, ma sopratutto negli occhi la gioia da bambina. Andare, sentiva, che era impossibile, si fece forza e l’abbracciò. La strinse forte alle sue braccia, sentiva il suo profumo, e i capelli sfiorargli il viso. La strinse ancora forte e poi forte, la paura di perderla gli spezzò il cuore e, quando riemerse dalle sue braccia, si sentì solo. Ancora una volta.
“Vai, ti prego” ripetè lei, mentre con gli occhi lo tratteneva.
La notte fredda e buia lo accolse proprio fuori dal cancello, fino a pochi minuti prima sapeva che il mondo aveva luce e calore. Si disse che era tardi e che troppo presto il tempo gli aveva sotratto tutti i desideri di cui credeva di non potere fare a meno. Un abbraccio, a volte, è tutto il mondo di cui si ha bisogno e poi il resto che ti circonda sembra solo un vuoto.
La Torre dietro le sue spalle era bianca, possente, bella e potente, l’avrebbe portata nel cuore della memoria lungo tutto il cammino che nel futuro lo attendeva. Un passo alla volta, come è difficile allontanarsi e restare vicini. Il mondo è un posto orribile, pieno di pericoli e ad ogni passo bisogna lottare per restare in possesso del proprio spazio. Un passo alla volta, quanti ti si parano davanti, tanti ostacoli devi superare e non curarti di chi ti attacca di fianco per paura di affrontarti di fronte!
Un passo alla volta, mia carissima cara, pensava, ritornerò da te, se mi vorrai come io ti voglio.
Il mondo è un posto meraviglioso, la strada che percorri è sul ciglio di un burrone, ma lo spettacolo è mozzafiato e la guerra che osservi e vivi, se la combatti, diventa splendore d’armi e d’emozioni. Del vero sentire nessuno ha mai trovato le parole.
Ti manca il fiato ogni volta che fai un passo alla volta, ma prendi coraggio e ne fai un’altro. Un passo alla volta, ritornerai da lei con le promesse che non le avevi confessato, come doni del tuo carattere e sentimenti nuovi da vivere e da scoprire.
Si era allontanato tanto, e lo spazio ed il tempo era trascorso. Sembrava interminabile, ma voltarsi indietro era impossibile. Un passo alla volta e non voltarsi indietro per ritrovare quello che si è lasciato, non uguale ma nuovo e sempre lo stesso. Per conquistare ciò che ti manca devi essere disposto a perdere ciò che possiedi.
Ogni passo alla volta che aveva fatto, temeva di averla perduta, faceva e disfaceva di tutto per ritrovarla lungo il suo cammino, o per inventare una strada lungo la quale ci fosse anche lei. Ora ne vedeva la fine, ad un passo. Da ultimo, era arrivato dove le sue promesse lo avevano fatto partire, per primo.
Un ultimo passo alla volta e finalmente avrebbe potuto tornare indietro, da lei, tra le sue braccia; da lei, dentro i suoi occhi; da lei, tra le sue parole che tessevano il mondo… Chissà se era sempre lì nella sua Torre, arredata con calore, accogliente, e piena di pace come nessuna casa lungo tutto il cammino affrontato in questa vita armata, che nessuna pace trova!
L’ultimo passo alla volta è un abisso, un’estasi. Una promessa mantenuta è un salto nel vuoto, è parola che diventa esperienza. Era felice di quanta paura lo aveva portato a lei e di tanto coraggio ora, divenuto Cavaliere, ne avrebbe fatto mille nuove abitudini, che ne proteggessero tutto il tempo, tutto lo spazio e ogni altro mondo che sarebbe appartenuto a loro e che avrebbero costruito ed inventato insieme.

Il Nemico

La porta girevole all’entrata lasciò il passo alle sue scarpe lucide, nuove, belle e costose.
La stazione di polizia, per ironia, come solo il destino ne sa distribuire non a caso lungo la vita degli uomini, aveva il pavimento con mattonelle di marmo bianche e nere. Una donna, di quelle alle quali imputano i facili costumi, senza mai additarne le necessità o le costrizioni, attirò subito la sua attenzione con una volgare esclamazione.
” Ehi bel vecchietto! Con la tua eleganza non so se mi farai venire, però ti assicuro che, con quello che spendi per vestirti, io saprei camparci!”
Per tutta risposta, l’uomo dai capelli brizzolati, si fermò e si aggiustò la cravatta sulla camicia di seta. Scosse lievemente il polso e lo portò alla vista, guardò l’ora sul suo orologio d’oro. Prima di avvicinarsi alla scrivania del poliziotto, il quale gli aveva fatto cenno di avvicinarsi e di lasciar perdere, osservò le belle gambe inguainate di nero della ragazza che, riavviandosi i capelli rossi, le accavallò solo per lui. L’uomo, con un sorriso di quelli che potrebbero essere un invito in altre circostanze, le fece un cenno di saluto con gli occhi, appena scoperti dagli occhiali scuri, da sole.
“Sono qui per il detenuto R.J.F.. Ho il permesso di poterlo vedere. Aspetti che glielo mostro” e si mise una mano nella tasca della giacca.
“Non importa” rispose immediatamente il poliziotto “Sapevamo che sarebbe venuto. Sappiamo chi è lei…”
“Non voglio trattamenti di favore” ribadì B.S., riponendo gli occhiali nel taschino della giacca.
“No, guardi che si sbaglia. A noi lo aveva detto il detenuto. Lei sarebbe, sicuramente, venuto trovarlo.” si precipitò a chiarire il poliziotto. Prese il foglio, lo mise sulla scrivania, si alzò.
“Da questa parte. Mi segua.”
Fisso con lo sguardo al pavimento, il detenuto se ne rimaneva immobile, assorto in un pensiero profondo. Barba e capelli incolti, schiacciati da un capellino a visitare fuori moda, sembrava un animale selvaggio in gabbia, pronto a ribellarsi al destino in ogni momento.
” Ciao, James. Come stai?”
” Non è incredibile? Lo credi anche tu vero?”
” Sì, davvero. Non riesco a spiegarmelo. Questo mondo sta diventando sempre più assurdo.”
“Davvero, Boris! Non è solo incredibile, è assurdo! Non può essere che il cavallo di Karpov abbia fatto tutte quelle mosse e quel giro… Sicuramente, è un complotto…”
“Lascia perdere, James. Non sono qui per gli scacchi.”
“Ma sono tutta la mia vita, Boris. Proprio tu dovresti saperlo.”
Il poliziotto, in disparte, si allontanò alcuni passi ancora, con l’espressione interrogativa di chi osserva una scena indecifrabile. Quei due appartenevano a mondi distanti, inconciliabili. Come sempre in questi casi tirò in ballo le solite baggianate, ‘l’ironia del destino’ o ‘l’amicizia è più forte del…’, per spiegarsi la realtà che gli si mostrava agli occhi increduli e che nulla a loro aveva chiesto.
“Sono la mia vita, Boris! Quanto male mi hanno fatto, quante lacrime ho dovuto asciugare con rabbia dai miei occhi!
Ma sono come la vista della mia camera di Reykjavík, quale pazzo rinuncerebbe a un indicibile bellezza, per delle insignificanti lacrime che scottano appena sulle gote?
Sai, Boris, non rinuncerei per nessun motivo alla gioia che provai in ospedale, giocando con Tal.”
“Sì, James, questo lo capisco. Anch’io rigiocherei con te, contro tutti i consigli che mi venivano dati. Loro non volevano rispettarti, volevano solo distruggerti.”
“Potevi non farmi diventare Campione. Potevi disdegnare tutti i miei capricci (Boris, tu lo sai, io volevo solo giocare a scacchi) – forse sarei passato alla storia come un codardo.”
“James, io non ti disprezzavo. Tu eri, tu sei il mio miglior Nemico. I nemici non si distruggono. Si combattono. Io volevo batterti a scacchi. Questo la gente non lo ha capito, non lo capirà. La gente non capisce, James.”
“Non ti ho mai ringraziato, Boris. Ho pensato a lungo che prima o poi avrei dovuto farlo.”
“Non ce n’era bisogno, mi hai onorato come penso anch’io. Ci sono parole, James, come le promesse, se vuoi veramente sentirle non devi pronunciarle mai.”
Il poliziotto fece un cenno al visitatore. Era forse scaduto il tempo della visita, o magari solo per dire che con sé aveva una scacchiera per i due nemici. Non si conclude un dialogo senza l’onore di aver lealmente lottato.

Il Matto del bacio

D’un tratto lei si scosse, come alla fine di un sogno. Dalla robusta spalla di lui sollevò la testa, tessendo nell’aria i suoi lunghi capelli.
Gli occhi delle donne sono sempre così profondi che impossibile rimane leggerne la leggerezza in superficie.
“Quello che mi mancherà di te sarà il silenzio dei tuoi pensieri” e così  dicendo la sua mano scivolò dai corti capelli fino alla guancia ispida. Una carezza invece di altre parole, troppo vere per essere gettate all’apparenza della realtà.
Se si confessa si mente e si tradisce. La verità, come i sentimenti sono incomunicabili.
Sentì conficcarglisi dentro agli occhi quella bellezza, come una fredda lama adamantina. Lo feriva d’un dolore o un amore, fervido, vivo, solo. Non distingueva a quale dei due apparteneva il suo cuore, e in fondo questo lo rendeva felice perché non doveva scegliere.
“Io, adesso, devo proprio andare. Ti dimenticherò, ma tu puoi fare finta che ti ho detto una bugia. Se mi cercherai, però, non farlo per la tua memoria. Se mi cercherai, promettimi che lo farai perché vuoi ritrovarmi altrove.” e lo baciò, prima di allontanarsi dal letto in punta di piedi.
Vide il suo corpo frastagliare la luce, disegnandola in forme così sinuose ed uniche che sembravano possedere un profumo, un ombra, un mistero appena svelato. Se fossi uno scrittore, torverei quest’istante in poche parole e tutti comprenderebbero cos’è un’anima. Questi pensieri gli si aggrovigliarono addosso, con il calore del corpo di lei che  svaniva come una nebbia mattutina. Nulla descrive meglio l’assenza che il non sentire più nessun peso.
L’abitudine, poi, veste tutti e trascorre gli anni. Come una madre di cuccioli d’uomo, così si comporta. Ti veste largo, scomodo, ma con il tempo l’abito quasi ti si cuce addosso, non sembra che ci possa essere altro di più comodo da indossare.
Seduto alla sua scrivania di alto buorocrate, digitava tasti e firmava documenti, giorno dopo ciascun giorno. Senza una lacrima aveva trascorso gli anni, rubando qua e là sogni, speranza e quanche frantume d’amore.
Aveva tanto viaggiato, perché potesse ritrovarla un giorno, bella come non se la ricordava. Per questo aveva sacrificato e amicizie e compagni a schiera, muovendosi come se il mondo fosse un quadrato delimitato dalla notte e il giorno, in lotta perenne. Non l’aveva, però, mai più trovata.
Spesso, allora, gli bastava, come la fame spezzata dal pane sordo, che della sua bellezza gli altri gli parlassero, allo stesso modo che di una fenice o di una chimera leggendaria il racconto ascoltasse.
Di rado si era trovato solo, sperduto nel vuoto di  tutte le case. Persino allora, il silenzio e la pace, gli avevano promesso che reale la bellezza si nasconde, ma si incontra se il coraggio non si dimentica.
Il cuore non si spezza e il disamore non lo nutre. Aveva sempre, come se fosse il primo, visitato ogni torneo di scacchi, pensando di ritrovarla un giorno, come gli era successo quella prima e univa volta. Fu un giorno speciale, quando la rivide apparire dal nulla. Bella e fiera, come una lama adamantina che ferisce la luce. Gli si trafisse il cuore, gli espolose in petto. S’arrestò ai suoi occhi concentrati e fieri, il suo sorriso sembrava un arma. Cominciò a fuggire al pudore chiedendo riparo, cercando nascondiglio alle sue deboli e poche forze, per paura d’essere riconosciuto, per paura di  dover morire tra le sue braccia. Nelle vene, inturgidite dal sangue, la voglia d’essere raggiunto. Durò il tempo quanto è lungo il necessario, poi lei lo raggiunse…lo mise in scacco, con le spalle al muro.
“Hai mantenuto la promessa, mi hai ritrovata!”
Dal letto inzuppato dal caldo e sudore, il paziente di soprassalto si svegliò. Si sentì urlare e gemere. La donna sulla poltrona si spaventò dapprima, poi si mise a singhiozzare. L’infermiere, accorso nel cuore della notte, la tranquillizzò: “E’ il delirio, signora, non possiamo farci nulla. E’ la malattia. Torni a dormire.”
L’uomo nel letto la chiamò a sé, le carezzò la mano e la gota bagnata.
“Quanto ti ho cercata! Un bacio, un bacio ancora ti voglio. Ho implorato mille albe, per ritrovarti ogni mattina. Finalmente!” sussurrò.
“Ora, possiamo ricominciare?”.

Alfi e l’avventura nel castello

Alfi amava andare a scuola. La sua era, infatti, una scuola diversa da tutte le altre. Sì, si imparava tanto, ma divertendosi un mondo e provando e riprovando quello che la maestra chiamava il gioco della vita.
No, i banchi non c’erano, questo gli piaceva un mondo. Ancor di più, gli piaceva, che tutta la scuola fosse grandissima, quadrata diceva la maestra, e per spostarsi da una stanza all’altra si poteva scegliere come muoversi: avanti, indietro a destra o sinistra, c’era chi addirittura faceva un movimento in cerchio saltando tutti gli ostacoli. Come diceva sempre la maestra, però, una volta scelto bisognava diventare responsabili e rispettare le proprie scelte.
“Troppo facile, bambini, fare sempre quello che ci piace! Avete scelto la vostra regola, ora dovete rispettarla! Sarete così bravi da essere così forti?” E mentre girava i tacchi, facendo svolazzare la gonna ed i capelli lunghi, Alfi e tutti i bambini, che volevano subito diventare grandi gridavano forte:
“Sììì”
Alfi non era come suo fratello gemello, senza paura. Per questo aveva subito scelto di muoversi in obliquo, la maestra usava quella parola strana ‘diagonale’ che lui proprio non riusciva mai a pronunciare bene, ci provava ma dalla bocca gli usciva sempre ‘digaonale’. Avendo, però, paura del buio aveva deciso di muoversi solo nelle stanze ben illuminate e chiare. Le aveva scelte, anche perché,  subito, gli erano sembrate tante, poi alcune erano corte mentre altre erano lunghissime. Così, a volte, se gli serviva, riusciva a percorrere tutta la scuola velocemente da una parte all’altra e senza cambiare direzione.
Ogni giorno le lezioni erano una nuova sfida. Era sempre diversa da quella del giorno prima ed emozionante perché non sapevi mai quello che ti sarebbe capitato e, alla fine, la maestra, attraverso i suoi occhiali colorati, spiegava a tutti che a scuola non si vince e non si perde mai, ma si impara sempre.
Ne aveva imparato tante di cose, Alfi, nelle giornate di gioco a scuola. Le aveva contate tutte le sessantaquattro stanze, di cui la scuola era composta, e le aveva visitate una ad una.
Con il tempo e l’aiuto della maestra e di tutti i suoi compagni, però, aveva imparato che non tutte le stanze erano uguali. Se si metteva, per esempio, in una stanza centrale, diventava molto più forte e veloce, poteva allora percorrere tutta la scuola da una parte all’altra. Conosceva, inoltre, il nome di tutte le stanze. All’inizio le leggeva sulla porta, certo, ma ormai Alfi le aveva imparate tutte a memoria.
Quante corse aveva fatto avanti e indietro lungo tutta la scuola!
Non era facile frenare le proprie emozioni e vivere insieme a tutti i suoi compagni, che si muovevano diversamente e avevano spesso idee molto diverse. All’inizio, quando la maestra gli aveva detto che doveva partire dalla casa f1, era stato molto contento.
“Sì, signora maestra!” aveva subito risposto, e subito dopo:
“Le prometto che sarò veloce come Ayrton e la sua formula uno!”
La maestra, arricciando prima il naso, ma subito dopo allargando un sorriso con i suoi bianchissimi denti, gli aveva raccomandato:
“Impara, piccolo Alfi, che la fretta non è buona consigliera e che l’istinto non sempre ti farà ottenere ciò che vuoi”.
Alfi, però, chi lo fermava, con tutta quella energia che aveva in corpo! E quante volte era dovuto ritornare indietro, fuggire, scappare! Quante volte era finito in una prigione, per colpa di quei piccoli Piedilenti!
Prova e riprova, non ci si arrende e si rigioca, e il nostro piccolo eroe aveva imparato a muoversi insieme agli altri, proprio come diceva la maestra alzando il dito minaccioso:
“Se tutti insieme vi aiutate, il Rebullo imprigionate!”.
Così, pian piano, Alfi capì d’essere paziente e contare gli amici che lo aiutavano. La matematica diventò la sua arma. Con suo fratello gemello al fianco, poi, diventava ancor più forte e meno pauroso, guai se le strade libere trovavano.
Imparò che i Piedilenti avevano bisogno del suo aiuto, così spesso  anche loro lo proteggevano. La sua preferita era Tordiritta, che forte e veloce insieme al suo aiuto in un mulinello facevano piazza pulita attorno al Rebullo. E quando lontano era arrivato il Cavalgaloppo, chiamava lui come rinforzo. Niente, però, poteva arrestarlo quando al fianco della Reginbella di tutti gli altri andavano all’attacco.
Un bel giorno da lontano guardava il Castello del Rebullo, tutto chiuso da una muraglia di Piedilenti. La partita era dura, pensava di saper tutto e non vedeva il modo per evitare la sconfitta alla propria squadra, il suo Rebullo stava per essere imprigionato. Guardò intorno e tutto triste pensò d’arrendersi. Parlò con la Rengibella, si rivolse al suo gemello e vide un Cavalgaloppo coraggioso al suo fianco.
La maestra lo guardò fiducioso, poi si rimise a leggere aggiustandosi gli occhiali. Pensò, poi disse agli altri:
“E se facessi visita al Castello, attirando fuori il Rebullo?”
I Piedilenti lo incoraggiarono, però ad Alfi non piaceva uscire subito dal  gioco e stare vicino alla maestra. Si decise, alla fine, e  tutto contento si rivolse nuovamente agli altri:
“Mi promettete, vero, che lo prenderete? Dobbiamo vincere, me lo promettete?”
“Lo  giuriamo!” urlarono tutti.
In un attimo si ricordò: non si vince e non si perde ma si impara sempre! E veloce corse verso il Castello del Rebullo.